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Ciascuno di noi è un messaggio che Dio manda al mondo (P. G. Vannucci OSM)

Una passo del Vangelo per te

UN PASSO DEL VANGELO PER TE

Il corpo nella preghiera liturgica

La preghiera non è cosa che riguarda la mente o solo l'animo di una persona. E' qualcosa di profondamente somatico. Non a caso tutte le antiche religioni storiche (buddismo, ebraismo, islam) coinvolgono il corpo nella preghiera. A volte capita che alcuni cristiani occidentali, abbandonando il loro credo, scoprono queste pratiche in altre fedi e ne sono affascinati.
In realtà, questa modalità di pregare era praticata anche nell'occidente europeo, in modo sostanzialmente non differente dall'Oriente cristiano dal quale l'aveva appresa. Lentamente con i secoli dalle nostre parti si è persa per cui oggi l'aula delle nuove chiese viene sistemata quasi come fosse una sala per conferenze. Infatti ci sono solo alcuni momenti in cui il corpo si coinvolge nella preghiera liturgica (in piedi e seduti, sempre più di rado in ginocchio. La prostrazione, di fatto, avviene solo con l'ordinazione sacerdotale).
Nell'oriente europeo, viceversa, continua a vivere l'antica tradizione, come si vedrà nel video incluso.
Propongo di seguito un testo che illustra la pratica della preghiera corporea in occidente attorno al XII-XIII secolo. Al testo sono state tolte le note per le quali si rimanda direttamente al libro: Jean-Claude Schmitt, Il gesto nel medioevo, pp. 275-282.

I modi della preghiera
Nel suo commentario alle costituzioni dell'ordine domenica­no, Umberto di Romans, maestro generale, consacra tutto un capitolo a quello che egli chiama gli «inchini». Con questa parola egli designa innanzitutto, in senso lato, tutte le flessioni del cor­po, che distingue col loro nome, di cui individua le circostanze nelle quali si effettuano, le funzioni e soprattutto le sei forme diverse che essi assumono (che in realtà si riducono ad essere cinque).
Nel senso stretto del termine, l'inclinatio è la flessione del corpo a partire dalle reni: essa può essere media (semi plena) se il busto resta obliquo, o profonda (plena), se è orizzontale.
La ge­nuflexio è sia diritta (recta) se il busto resta verticale, sia inclinata (proclivis) se esso si abbassa; in questo caso, essa si confonde con la prostratio super genua (il corpo che poggia sulle ginocchia), di­stinta dalla prostratio venia (a carattere penitenziale), con il corpo completamente allungato al suolo, ma con le braccia in asse con questo, poiché Umberto condanna «certi laici» che fanno una prosternazione con le braccia a croce e con la bocca che bacia la terra.
Queste distinzioni mi paiono importanti per il loro carattere sistematico, la loro volontà di descrivere i movimenti rituali che il corpo può compiere attorno a due delle sue articolazioni prin­cipali: le reni e le ginocchia. Esse restano tuttavia in un contesto non soltanto conventuale, ma liturgico (Umberto di Romans par­la degli inchini dei frati di fronte all'altare dopo i mattutini della Vergine) ed esse non mirano di certo a inglobare tutti i gesti della preghiera.
La grandissima novità degli altri due opuscoli emerge ancora meglio. Uno è stato di recente attribuito al teologo parigino Pie­tro Cantore (1197). L'altro, ancora una volta, appartiene alla tradizione domenicana del periodo a cavallo tra il secolo XIII e il secolo XIV. Entrambi intendono fornire la descrizione testuale e in immagine dei differenti modi gestuali che si adattano alla preghiera cristiana.

Pietro Cantore
L'opuscolo sulla preghiera attribuito a Pietro Cantore fa parte di un trattato sulla penitenza del quale costituisce la seconda parte. Sembra infatti che esso abbia costituito un'opera autono­ma, che fu poi ricollegata posteriormente a questo trattato. Esso è noto grazie a otto manoscritti, che vengono fatti risalire tra il 1220 e il 1400 e che sono stati studiati con particolare profondità da Richard C. Trexler. Ne tratterò qualche aspetto importante che rientra nella prospettiva oggetto di questo libro.
L'interesse di questo opuscolo consiste innanzitutto nel suo obiettivo teorico, in ciò che riguarda non soltanto la teologia del­la preghiera ma anche il gesto, di cui l'autore fornisce anche una sorta di definizione: «il gesto del corpo è la testimonianza e la prova della devozione dello spirito. L'atteggiamento dell'uomo esteriore ci istruisce sull'umiltà e sul desiderio (affectus) dell'uo­mo interiore». Questa definizione non è molto originale poiché non offre che una variante all'idea tradizionale del gesto come specchio dell'anima; ma essa adatta questa prospettiva morale al campo particolare della preghiera.
Più nuova è invece la percezione tecnicistica dei gesti della preghiera: l'autore definisce colui che prega un artigiano (artifex est orator) che sa maneggiare correttamente quegli «strumenti na­turali» che sono le membra del suo corpo, in relazione a quegli «strumenti artificiali» che gli uomini usano per coltivare la terra o tagliare la legna. Osserviamo, cosa sorprendente in questo contesto, come traspaia l'interesse dell'autore per i gesti del la­voro. Il confronto tra l'orante e l'artigiano tende ad attribuire al gesto tecnico, invocato a modello, un valore straordinario, arric­chendo in maniera inaspettata la riflessione sui gesti della pre­ghiera.
La precisione con cui in seguito viene descritto nei dettagli ciascun gesto della preghiera discende dall'idea originaria che questi gesti siano delle «tecniche del corpo» le quali, a guisa di utensili, hanno una utilitas pratica: non soltanto essi «rappresen­tano» gli stati nascosti dell'anima, ma, nell'ottica della tradizione agostiniana, essi rendono più intenso l'affectus del fedele in pre­ghiera.

L'opuscolo distingue sette modi di pregare. Ognuno di questi viene introdotto da un titolo, che, talvolta, non è che un fram­mento delle Sacre Scritture il quale, nello stesso tempo, ha la funzione di identificare il gesto, di legittimarlo ed in certi casi di enunciare la parte vocale della preghiera che quasi sempre ac­compagna il gesto. Ciascun modo costituisce anche l'oggetto di una descrizione testuale, di una giustificazione che in sei casi su sette è biblica, nonché di una illustrazione. Quest'ultima era sta­ta prevista fin dalla stesura iniziale del trattato, poiché il testo fa riferimento alle immagini. L'insieme del corpus non comprende meno di 58 immagini di modi di pregare.
Al di là dell'esplicito richiamo alla dottrina gregoriana delle immagini (esse sono il sostituto dei testo per coloro che non san­no leggere), sembra che lo scopo di queste istruzioni sia, in concorrenza col testo, quello di insegnare in maniera più appro­priata i gesti della preghiera, anche ad un pubblico dotto. Ma più ancora del testo, le immagini, da un manoscritto all'altro, presentano frequenti varianti di cui bisogna tenere conto.

I primi tre modi della preghiera riguardano il corpo in piedi. L'autore sottolinea il carattere di questa posizione e ricorda che l’orante è un combattente , incapace quindi di pregare seduto o disteso. Per lo stesso motivo è necessario che, per pregare, egli si tenga eretto senza appoggiarsi ad alcunché.
Il primo modo gestuale è l’elevatio manuum: il corpo è completamente diritto con le mani giunte levate sulla verticale al di sopra del capo. Numerosi testi di san Paolo, dei profeti, della Vita di san Martino gli servono come giustificazione. L’autore osserva che talvolta, le donne adottano questo modo di pregare, non solo in chiesa ma in casa, per strada, nei campi o in piazza. Il corpo diritto significa la tensione del cuore verso Dio.
Nel secondo modo (Expandi) le braccia a croce. Esso è particolarmente appropriato per pregare in un “luogo sacro”.
Il terzo modo (Deus propitius esto) è adatto ad una preghiera di intercessione. Le mani sono aperte davanti agli occhi come per leggere, dice il testo. Ma le immagini esitano tra questa interpretazione — mostrano una certa distanza tra le due mani — e la rappresentazione delle mani giunte all'altezza del mento.
I due modi che seguono sono riuniti in un capitolo supple­mentare dell'opera sotto il comune appellativo di genuflexiones, anche se soltanto nel quarto modo si può parlare propriamente di genuflessione. Esso viene identificato dalle parole Domine ­si vis, potes, parole con le quali il lebbroso implorò il Cristo per ottenere da lui la guarigione (Marco I, 40). 
Si tratta della genu­flexio recta come quella che descrive Umberto di Romans qualche decennio più tardi, con le due ginocchia poggiate a terra, le brac­cia che si staccano più o meno dal corpo, le mani giunte. E questo ormai l'atteggiamento classico che assume la preghiera del cri­stiano.
L’autore ne discute quindi accuratamente le modalità nell'ul­timo capitolo: non bisogna che le ginocchia riposino su un ap­poggio, come una pietra o un pezzo di legno; esse devono essere alla stessa distanza dal suolo delle estremità dei piedi, altrimenti la preghiera è una «frode», è «falsa». Ma perché la genuflessione sia la «migliore», la più «sincera» e la più «utile», è necessario che «la bocca, il petto, il ventre, le braccia, le ginocchia, le cosce e le dita dei piedi tocchino terra», allo stesso livello: la miglior genu­flexio è, per parlare come Umberto di Romans, una prostratio ve­nia.
È così anche il quinto modo di pregare o Adhesit pavimento individuato da questo opuscolo. Ma, in questo caso, le im­magini variano molto: nella maggior parte dei casi, ancora una volta, le braccia sono piegate e le mani giunte. In un caso, le mani sono giunte, ma le braccia sono allungate al massimo. In un'altro, infine, le braccia sono a croce, un tipo di prostrazione che Um­berto di Romans condannerà.

Il sesto modo (Incurvatus sum usquequaque), che corrisponde all'inclinatio plena di Umberto di Romans, lo si concepisce me­glio in un contesto liturgico e nello spazio della chiesa: colui che prega è in piedi, ma con la testa china, (di fronte all'altare, durante la recitazione del Credo e specialmente durante la con­sacrazione del pane e del vino, o ancora di fronte all'immagine del Cristo o di un Santo. L'autore loda i francesi (Galli), che possiedono un grande fervore religioso (le scuole «di arti e virtù», poiché non si limitano a flettere «la testa e Ie reni», ma «toglien­dosi dal capo cappucci e copricapi, si prosternano e cadono faccia a terra» nel momento della consacrazione.
Le varianti nelle illustrazioni di questo sesto modo di pre­ghiera, fanno eco a tali diverse modalità: parecchie volte, l'altare viene rappresentato di fronte al cristiano in preghiera. Soltanto in un caso il corpo è ritto, con il solo capo chino e la fronte che tocca i pollici diritti delle mani giunte; in cinque casi, il busto è molto inclinato (inclinatio semi plena o plena), le braccia sono tese verso il suolo e le mani sono giunte; in un caso, la posizione generale del corpo è simile, ma le braccia si raddrizzano nel gesto classico della preghiera; infine, un caso rappresenta la preghiera in ginocchio, a mani giunte, sugli scalini dell'altare. Cionondimeno, nessuna immagine rappresenta la prostratio venia che l'au­tore attribuisce ai francesi al momento della consacrazione.
Questo passaggio riecheggia gli intensi dibattiti teologici che si svolgono nell'ambito delle scuole e della cattedrale di Parigi a cavallo tra il XII e il XIII secolo e nei quali Pietro Cantore svolge un ruolo di primo piano.
La Chiesa, preoccupandosi più che in passato della cura animarum e delle pratiche religiose dei laici, prende anche in considerazione i gesti di questi ultimi in chiesa, specialmente nell'ambito del culto dell'Eucaristia, in pieno svi­luppo. Alla fine del XIII secolo, il vescovo di Mende, Guglielmo Durante, si mostra particolarmente preoccupato dei gesti dei suoi parrocchiani durante la messa: il clero deve stare attento che i fedeli si inginocchino o perlomeno chinino il capo quando ven­gono invocati il nome di Gesù e della Madonna. Al concilio di Lione del 1274, il canone 25 aveva prescritto l'inchino durante l'invocazione del nome di Gesù, e non una genuflessione, gesto più ampio che invece reclamava il celebre predicatore tedesco Bertoldo di Ratisbona. Guglielmo Durante, più di dieci anni dopo, propone di scegliere tra i due ed evita una scelta esclusiva. Conformemente alla tradizione liturgica prevalente da tempo tra i chierici e i monaci, egli proibisce ai laici di inginocchiarsi du­rante la messa tra la Pasqua e la Pentecoste, le domeniche e le festività, poiché un gesto di afflizione non è conveniente nei gior­ni in cui la Chiesa è in tripudio. Infine, conformemente agli usi dell'epoca, egli prescrive la genuflessione davanti all'ostia consacrata levata in alto dal prete, senza però far menzione della prosternazione di cui parla, probabilmente esagerando un poco, Pietro Cantore.





Molteplici documenti attestano la diversità degli usi e la ri­cerca, per i laici, di posizioni e gesti più degni di onorare le cose sacre. Nel Chastoiement des Dames, Roberto di Blois raccoman­da alle nobildonne laiche di alzarsi durante la lettura del Vangelo e di nuovo all'elevazione del Corpus Domini, con le mani giunte e a testa china. Esse devono poi inginocchiarsi e pregare per tutti i cristiani e in un secondo tempo alzarsi in piedi, a meno che non siano incinte o malate, poiché in tal caso possono restare sedute. Nel secolo successivo gli opuscoli che certi chierici inglesi dedicano all'edificazione dei semplici laici prescrivono la genuflessio­ne, ma a mani levate in alto, durante la consacrazione. Il gesto di adorazione in ginocchio diventa in tal modo un segno di un'a­nimità, di adesione alla comunità della Chiesa. Nella stessa epo­ca, gli eretici si distinguono rifiutandolo, e si tradiscono per la singolarità del loro comportamento a messa. L'inquisitore Ber­nardo Gui (1308-1323) osserva come gli eretici, durante l'eleva­zione, guardino verso il muro e non verso l'ostia e aggiunge: «è raro che essi si inginocchino o congiungano le mani per pregare come gli altri uomini». Agli eretici si attribuiscono persino dei gesti blasfemi durante la consacrazione.
L'ultimo modo di pregare (Domine exaudi) è l'unico a non essere giustificato da un'«autorità» biblica, ma da una testimonianza di Gregorio Magno che cita ad esempio la preghiera della sua zia paterna: essa era solita pregare «nella posizione del cammello», con le ginocchia e i gomiti che toccavano il suolo. Per costei si trattava di mortificare la carne e, nel giro di alcuni anni, in queste zone del corpo le si erano formate delle cicatrici. Que­sta maniera di pregare la si ritrova effettivamente in certe costi­tuzioni monastiche. Qui le immagini ne seguono più o meno fedelmente la descrizione, la schiena incurvata, le ginocchia e i gomiti che toccano il suolo, le mani giunte.
Resta da sapere a chi si rivolge questo opuscolo. Il testo non fornisce alcuna indicazione: solo la personalità di Pietro Canto­re, se l'attribuzione a questo autore è esatta, può far pensare a un pubblico di chierici delle scuole, al clero secolare e al di là di questo a dei semplici fedeli. Certi manoscritti provengono dalle biblioteche dei monasteri, ma è poco probabile che dei monaci abbiano realmente avuto bisogno, nel XIII secolo, di un simile manuale per imparare a pregare.
Le immagini forniscono delle informazioni più precise: solo un manoscritto (Ottobeuren) rap­presenta abbastanza regolarmente un monaco in preghiera. La maggior parte degli altri manoscritti mostra dei giovani senza alcun segno di chiericato. Nel caso del manoscritto veneziano, che proviene da S. Maria della Misericordia in Valverde, Ri­chard C. Trexler ipotizza che ad utilizzare questo opuscolo sa­rebbero stati i membri di una confraternita di laici. In qualche caso, e non soltanto per il settimo modo di pregare, è una donna, una semplice laica e non una religiosa, a essere rappresentata in preghiera. Direttamente, o indirettamente, sembra dunque che quest'opuscolo abbia raggiunto un pubblico laico. La novità for­male di questo tipo di opera va di pari passo, con la scelta, senza precedenti, di tali destinatari.

Tratto da: traditioliturgica.blogspot.it

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