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Ciascuno di noi è un messaggio che Dio manda al mondo (P. G. Vannucci OSM)

Una passo del Vangelo per te

UN PASSO DEL VANGELO PER TE

Biografia di Sant'Agostino d'Ipponia (28 agosto)

Nel Martirologio Romano, 28 agosto, n.1: Memoria di sant'Agostino, Vescovo e insigne Dottore della Chiesa
Convertito alla fede cattolica dopo una adolescenza inquieta nei princípi e nei costumi, fu battezzato a Milano da Sant'Ambrogio e, tornato in patria, condusse con alcuni amici vita ascetica, dedita a Dio e allo studio delle Scritture. Eletto poi vescovo di Ippona in Africa, nell'odierna Algeria, fu per trentaquattro anni maestro del suo gregge, che istruì con sermoni e numerosi scritti, con i quali combatté anche strenuamente contro gli errori del suo tempo o espose con sapienza la retta fede. »

Dalla nascita alla conversione (354-386)
Era figlio, forse primogenito, di un consigliere municipale e modesto proprietario di Tagaste nella Numidia. Se, come sembra, fu africano di razza oltre che di nascita, fu certamente romano di lingua, di cultura, di cuore. Studiò a Tagaste, a Madaura e, con l'aiuto del concittadino Romaniano, a Cartagine. Insegnò grammatica a Tagaste (374) e retorica a Cartagine (375-383), a Roma (384), a Milano (autunno 384-estate 386): qui come professore ufficiale. Conobbe a fondo la lingua e la cultura latina, non ebbe familiare il greco, ignorò il punico.
Educato cristianamente dalla piissima madre, Monica, restò sempre, nell'animo, un cristiano, anche quando, a 19 anni, abbandonò la fede cattolica.
La sua lunga e tormentata evoluzione interiore (373-386) cominciò con la lettura dell'Ortensio di Cicerone che lo entusiasmò per la sapienza, ma ne tinse i pensieri di tendenze razionaliste e naturaliste. Poco dopo, letta senza frutto la Scrittura, incontrò, ascoltò e seguì i manichei. Le ragioni principali furono tre: il proclamato razionalismo che escludeva la fede, l'aperta professione d'un cristianesimo spirituale e puro che escludeva l'Antico Testamento, la soluzione radicale del problema del male che i manichei offrivano. Non fu un manicheo convinto, ma solo fiducioso che gli venisse mostrata la sapienza promessa (De beata vita 4); fu invece un convinto anticattolico. Del manicheismo accettò i presupposti metodologici e metafisici: il razionalismo, il materialismo, il dualismo.

Accortosi a poco a poco, attraverso lo studio delle arti liberali, particolarmente della filosofia, dell'inconsistenza della religione di Mani – la controprova gliela diede il vescovo manicheo Fausto – non pensò di tornare alla Chiesa cattolica, non si affidò a una corrente di filosofi "perché ignoravano il nome di Cristo" (Confessioni 5, 14, 25); ma cadde nella tentazione scettica: "Gli accademici tennero a lungo il timone della mia nave" (De beata vita 4). Il cammino di ritorno cominciò a Milano, con la predicazione di Ambrogio che dissipava le difficoltà manichee e offriva la chiave per interpretare l'Antico Testamento, continuò con la riflessione personale sulla necessità della fede per giungere alla sapienza, approdò alla convinzione che l'autorità su cui si appoggia la fede è la Scrittura, garantita e letta dalla Chiesa. Aveva opposto Cristo alla Chiesa, ora si accorgeva che la via per andare a Cristo era proprio la Chiesa.

Si è molto discusso e si discute sul momento della conversione di Agostino e sull'influsso che in essa ebbe la lettura dei platonici. Se si vuole restare fedeli ai testi agostiniani occorre fare una distinzione importante tra il motivo della fede e il contenuto della medesima: quello lo aveva conquistato prima della lettura dei platonici; questo lo chiarì, in parte, dopo. Nonostante molte questioni gli restassero ancora oscure, aderiva, come sempre aveva fatto, all'autorità di Cristo e, di nuovo ormai, all'autorità della Chiesa. "Rimaneva tuttavia saldamente radicata nel mio cuore la fede nella Chiesa cattolica... Certo una fede ancora rozza in molti punti e fluttuante oltre i limiti della giusta dottrina, però il mio spirito non l'abbandonava, anzi se ne imbeveva ogni giorno di più" (Confessioni 7, 5, 7).

I platonici lo aiutarono a risolvere due grossi problemi filosofici, quello del materialismo e quello del male: il primo imparò a superarlo scoprendo nel suo mondo interiore, seguendo appunto il consiglio dei platonici (Confessioni 7, 10, 16), la luce intelligibile della verità; il secondo intuendo la nozione del male come difetto o privazione di bene. Restava il problema teologico della mediazione e della grazia. Per risolverlo si volse a s. Paolo, dalla cui lettura comprese che Cristo non è solo Maestro, ma anche Redentore. Superato così l'ultimo errore, il naturalismo, il cammino di ritorno alla fede cattolica era terminato.

Ma a questo punto nasceva o, meglio, rinasceva un altro problema: la scelta del modo di vivere l'ideale cristiano della sapienza; se cioè convenisse rinunciare per esso ad ogni speranza terrena, e quindi anche alla carriera e al matrimonio, oppure no. La prima rinuncia, anche se la carriera si annunciava brillante (era vicina la presidenza d'un tribunale o d'una provincia), non gli costava molto; molto invece gli costava la seconda: a 17 anni, per mettere un freno all'erompente pubertà e restare in sintonia con la buona società (Soliloquiorum libri unus, 11, 1911), s'era unito con una donna, da cui aveva avuto un figlio,Adeodato (morto tra il 389 e il 391), e a cui era restato sempre fedele (Confessioni 4, 2, 2). Dopo lunghe esitazioni (Confessioni 6, 11, 18-16, 26) e drammatici contrasti, non senza uno straordinario aiuto della grazia (Confessioni 8, 6, 13-12, 30), la scelta fu fatta secondo il consiglio dell'Apostolo e le più profonde aspirazioni di Agostino: "Mi volgesti a te così a pieno, che non cercavo più né moglie né altra speranza di questo mondo" (Confessioni 8, 12, 30). Era l'anno 386, inizio del mese di agosto.

Dalla conversione all'episcopato (386-396)
Meno di dieci anni, ma spiritualmente e teologicamente ricchissimi.
Presa la decisione di rinunciare all'insegnamento e al matrimonio, verso la fine di ottobre si ritirò a Cassiciaco (probabilmente l'odierna Cassago nella Brianza) per prepararsi al battesimo, ai primi di marzo tornò a Milano, s'iscrisse tra i catecumeni, seguì la catechesi di Ambrogio e fu da lui battezzato, insieme all'amico Alipio e al figlio Adeodato, nella notte tra il 24 e il 25 aprile, vigilia di Pasqua: "e fuggì da noi l'inquietudine della vita passata" (Confessioni 9, 6, 14).

Dopo il battesimo, la piccola comitiva decise di tornare in Africa per attuare laggiù "il santo proposito" di vivere insieme nel servizio di Dio. Prima della fine di agosto lasciò Milano e giunse a Ostia dove la madre, Monica, si ammalò improvvisamente e morì. Morta la madre, Agostino decise di tornare a Roma e vi si trattenne fino a dopo la morte dell'usurpatore Massimo (luglio o agosto del 388), interessandosi alla vita monastica e continuando a scrivere libri; partì poi per l'Africa e si ritirò a Tagaste, dove con gli amici mise in opera il suo programma di vita ascetica (cfr. Possidio, Vita, 3, 1-2).

Nel 391 scese a Ippona per "cercare un luogo dove fondare un monastero e vivere con i miei fratelli", ma vi trovò la sorpresa dell'ordinazione sacerdotale, che accettò riluttante (Sermoni 355, 2; Epistulae 21; Possidio, Vita 4, 2). Ordinato sacerdote, ottenne dal vescovo di fondare, secondo il suo piano, un monastero, dove "prese a vivere secondo la maniera e la regola stabilita ai tempi dei Santi Apostoli" (Possidio, Vita 5, 1), intensificando l'ascetismo, approfondendo gli studi di teologia e cominciando l'apostolato della predicazione. La consacrazione episcopale intervenne nel 395 o, secondo altri, nel 396. Fu per qualche tempo coadiutore d'Ippona, poi – almeno dall'agosto del 397 – vescovo. Lasciò allora il monastero dei laici, dov'era vissuto a capo di quella comunità, e per essere più libero nell'usare ospitalità verso tutti, si ritirò nella "casa del vescovo" facendone un monastero di chierici (Sermo 355, 2)

Dall'episcopato alla morte (396-430)
L'attività episcopale di Agostino fu davvero prodigiosa, tanto quella ordinaria per la sua diocesi quanto quella straordinaria per la Chiesa d'Africa e per la Chiesa universale.
Tra le attività ordinarie devono annoverarsi: il ministero della parola (predicò ininterrottamente due volte alla settimana – sabato e domenica – spesso per più giorni consecutivi o anche due volte al giorno); l'audientia episcopi per ascoltare e giudicare le cause, che gli occupavano non raramente tutta la giornata; la cura dei poveri e degli orfani; la formazione del clero, con il quale fu paterno, ma anche rigoroso; l'organizzazione dei monasteri maschili e femminili; la visita agli infermi; l'intervento a favore dei fedeli presso le autorità civili (apud saeculi potestates), che non amava fare, ma, quando lo riteneva opportuno, faceva; l'amministrazione dei beni ecclesiastici, della quale avrebbe fatto volentieri a meno, ma non trovò nessun laico che se ne volesse occupare.

Ancor maggiore l'attività straordinaria: i molti e lunghi viaggi per esser presente ai frequenti concili africani o per venire incontro alle richieste dei colleghi; la dettatura delle lettere per rispondere a quanti, da ogni parte e di ogni ceto, si rivolgevano a lui; l'illustrazione e la difesa della fede.
Quest'ultima esigenza lo indusse ad intervenire senza posa contro i manichei, i donatisti, i pelagiani, gli ariani, i pagani. Fu l'anima della conferenza del 411 tra vescovi cattolici e vescovi donatisti e l'artefice principale della soluzione dello scisma donatista e della controversia pelagiana.
Morendo, il 28 agosto del 430, al terzo mese dell'assedio d'Ippona da parte dei Vandali, lasciò tre importanti opere incompiute, tra cui la seconda risposta a Giuliano, architetto del pelagianesimo. L'ultimo scritto fu una lettera (Epistola 228), dettata forse dal letto di morte, sui doveri dei sacerdoti di fronte all'invasione barbarica. Sepolto presumibilmente nella Basilica pacis – la cattedrale –, le sue ossa, in data incerta, furono trasportate in Sardegna e da qui, verso il 725, a Pavia nella Basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, dove riposano.

Il pensiero
Agostino ha una personalità complessa e profonda: è filosofo, teologo, mistico, poeta, oratore, polemista, scrittore, pastore. Tutte qualità che si completano a vicenda e fanno di lui un uomo "al quale quasi nessuno o certo pochissimi di quanti son fioriti dall'inizio del genere umano fino ad oggi si possono comparare" (Pio XI). Scrive l'Altaner: "Il grande vescovo univa in sé l'energia creatrice di Tertulliano e la larghezza di spirito di Origene con il senso ecclesiastico di Cipriano, l'acutezza dialettica di Aristotele coll'idealismo alato e la speculazione di Platone; il senso pratico dei latini con la duttilità spirituale dei greci. Fu il massimo filosofo dell'epoca patristica, e senza dubbio il più importante ed influente teologo della Chiesa in generale. La sua opera incontrò fin dai suoi tempi entusiastici ammiratori" (Patrologia, Torino 1976, 433).

In realtà egli ha creato, nell'ambito del cristianesimo, la prima grande sintesi di filosofia che resta un momento essenziale nel pensiero dell'Occidente. Partendo dall'evidenza dell'autocognizione, spazia sui temi dell'essere, della verità, dell'amore, e getta molta luce d'intelligibilità sui problemi della ricerca di Dio e della natura dell'uomo, dell'eternità e del tempo, della libertà e del male, della Provvidenza e della storia, della beatitudine, della giustizia, della pace.
Con umiltà ed ardimento ha illustrato i misteri cristiani, determinando il più grande progresso dommatico che la storia della teologia ricordi; e non solo intorno alla dottrina della grazia, ma anche intorno alla Trinità, alla Redenzione, alla Chiesa, ai Sacramenti, all'escatologia: si può ben dire che non ci sia argomento teologico che non abbia illuminato. Ha spiegato ampiamente la dottrina morale incentrata nell'amore, e la dottrina sociale e politica; ha difeso le vie dell'ascetica cristiana e indicato le vette più alte della mistica.
Come oratore ha saputo mettere insieme la profondità e la precisione dommatica del dottore, l'altezza lirica del poeta, la vibrante commozione del mistico, la semplicità evangelica del pastore che vuol farsi tutto a tutti. Conosce i diversi stili dell'oratoria, che egli stesso descriverà verso la fine della vita nel De doctrina christiana, e li usa, passando con molta naturalezza da quello semplice a quello moderato, e da questo, molto spesso, a quello sublime.

È un polemista formidabile. Profondamente convinto della verità e dell'originalità della dottrina cattolica, la difende contro tutti – pagani, giudei, scismatici, eretici – con le armi della dialettica e con le risorse della fede e della ragione. Ma ebbe rispetto per gli avversari. Ne studiò le opere, ne riportò il testo che confutava, ne riconobbe i meriti, ne dissimulò e perdonò le offese. Imparò dalla sofferta esperienza dell'errore ad essere buono con gli erranti.

Della retorica fu maestro consumato. Se ne servì ed insegnò ad altri a servirsene (cfr. De doctrina christiana 4), subordinandola sempre, però, al contenuto. "Si deve considerare il contenuto al di sopra delle parole come l'anima al di sopra del corpo" (De catechizandis rudibus 9, 13). Quando fosse necessario, pur di farsi capire, non ebbe timore di usare neologismi o di sgrammaticare. "Preferisco essere criticato dai grammatici che non essere capito dal popolo" (In psalmos 138, 19; 36, Sermones 3, 6; Sermones 37, 14). Se nelle prime opere lo stile è ancora classicheggiante – "gonfio della consuetudine delle lettere secolari" (Retractationes, prologus 3) – nelle altre va ispirandosi sempre più alla Bibbia e agli autori ecclesiastici, contribuendo validamente, in questo modo, a creare il latino cristiano. Non ebbe un solo stile, ma tanti, si può dire, quanti ne esigevano i contenuti delle sue opere: le Confessioni, la Città di Dio, i Discorsi, le Lettere – queste ultime secondo la diversità dell'argomento – hanno uno stile chiaramente diverso nella struttura del periodo e nel vocabolario, adeguato alla fisionomia delle singole opere.
Particolarmente interessante è lo studio dell'animo di Agostino. Alle straordinarie qualità intellettive facevano riscontro quelle morali, che non erano inferiori. Un carattere nobile, generoso e forte; una ricerca insaziabile della sapienza; un bisogno profondo dell'amicizia; un amore vibrante a Cristo, alla Chiesa, ai fedeli; un'applicazione e una resistenza sorprendenti al lavoro; un ascetismo moderato e pur austero; una sincera umiltà che non teme di riconoscere i propri errori (cfr. Confessioni e Ritrattazioni); una dedizione assidua allo studio della Scrittura, alla preghiera, alle ascensioni interiori, alla contemplazione.

È un pastore che si sente e si definisce "servo di Cristo e servo dei servi di Cristo" (Epistola 217), e ne tira le conseguenze estreme: piena disponibilità ai bisogni dei fedeli, desiderio di non essere salvo senza di loro ("non voglio essere salvo senza di voi", Sermones 17, 2), preghiera a Dio di essere sempre pronto a morire per loro "aut effectu aut affectu" (Sermones 296, 5), amore verso gli erranti anche se non lo vogliono, anche se l'offendono ("Dicano contro di noi quello che vogliono; noi li amiamo anche se non vogliono" - In psalmos 36, 3, 19). È pastore nel senso pieno della parola.
È un maestro che si sente discepolo e desidera che tutti siano condiscepoli della verità, che è Cristo. Nelle controversie non ama che una sola vittoria, quella propria della Città di Dio, la vittoria della verità (De civitate Dei 2, 29, 2). "In quanto a me non esiterò a cercare se mi trovo nel dubbio, non mi vergognerò d'imparare se mi trovo nell'errore. Perciò... prosegua con me chi insieme a me è certo; cerchi con me chi condivide i miei dubbi; torni a me chi riconosce il suo errore, mi richiami chi si accorge del mio" (De Trinitate 1, 2, 4-3, 5). Ritiene pertanto con grande favore essere corretto, anche se non si nasconde che chi vuol correggerlo deve anche egli guardarsi dall'errore (De dono perseverantiae 21, 55; 24, 68). Soprattutto non vuole essere identificato con la Chiesa di cui si professa figlio umile e devoto: "Sono forse io la [Chiesa] cattolica?... A me basta di essere in essa" (In psalmos 36, 3, 19).

Questo, in sintesi, l'uomo che è stato il maestro più seguito in Occidente, di cui si può ben chiamare Padre comune. "Ciò che era stato Origene per la scienza teologica del II e del IV secolo, Agostino lo fu, in modo assai più duraturo ed efficace, per tutta la vita della Chiesa nei secoli successivi fino all'epoca contemporanea. La sua influenza si estese non solo nel dominio della filosofia, della dogmatica, della teologia morale e della mistica, ma ancora nella vita sociale e caritativa, nella politica ecclesiastica, nel diritto pubblico; egli fu, in una parola, il grande artefice della cultura occidentale del Medio Evo" (Altaner, Patrologia, Torino 1976, p. 433).
Egli volle essere, come studioso e polemista, interprete fedele dell'insegnamento cattolico: questo insegnamento resta la chiave migliore per interpretarne il pensiero. "E se talora da parte dei protestanti si tentò e si tenta d'interpretare il suo pensiero come parzialmente non consono al sentire della Chiesa, si deve al contrario constatare con K. Holl che la "chiesa cattolica lo comprese sempre meglio dei suoi avversari. Il magistero ecclesiastico nelle sue decisioni non ha seguito alcun altro autore teologico quanto Agostino, e ciò anche per la dottrina della grazia" (Altaner, o. c., pp. 433-434).
Infatti Celestino I ne difese la memoria e lo annoverò tra "i maestri ottimi" dichiarando che era stato sempre amato e onorato da tutti (Denzinger 237); Ormisda (Denzinger 366), Bonifacio II (Denzinger 399), Giovanni II si richiamano nelle questioni della grazia ad Agostino, "la cui dottrina secondo le decisioni dei miei predecessori – così l'ultimo Pontefice ricordato – segue e conserva la chiesa romana" (Patrologia Latina 66, 21). I Pontefici a noi più vicini – Leone XIII, Pio XI, Paolo VI ne hanno esaltato la dottrina e la santità. I Concili poi – di Orange sul peccato originale e la grazia, di Trento sulla giustificazione, del Vaticano I sulle relazioni tra la ragione e la fede e del Vaticano II sul mistero della chiesa, sulla rivelazione e sul mistero dell'uomo hanno attinto largamente – specialmente il primo – alla sua dottrina, dimostrando con ciò che essa non era di Agostino ma della chiesa, la quale pertanto la riconosceva per sua. È inutile ricordare che in questi casi non è più in questione il vescovo di Ippona, ma la chiesa stessa.

Per il resto egli rimane un pensatore e uno scrittore, al quale le ripetute attestazioni del magistero e la stima continua dei teologi posteriori – tra essi non ultimo s. Tommaso – hanno conferito una particolare autorità. Questa, se non autorizza nessuno a preferirne l'insegnamento a quello della chiesa (Denzinger 2330), non consente neppure, d'altra parte, di metterne in dubbio l'ortodossia o di negarne il servizio incomparabile reso alla chiesa stessa e alla civiltà cristiana.
Che il suo insegnamento sia stato interpretato lungo i secoli in maniere tanto diverse non è segno di oscurità: Agostino non è un autore oscuro, ma neppure un autore facile. Non è facile per molte ragioni: per la profondità del pensiero, per la molteplicità delle opere, per la vastità delle questioni affrontate e il modo differente di affrontarle, per la diversità del linguaggio, e qualche volta l'incertezza propria dei grandi iniziatori, per l'evoluzione del pensiero stesso e la mancanza di sistemazione; ed anche, in ultimo, per i limiti che esso, come ogni pensiero umano, possiede. Solo chi riesce pazientemente a superare queste difficoltà troverà il vero Agostino, quello degli scritti, "nei quali i fedeli sempre lo ritrovano vivo" (Possidio, Vita 31, 8), quello della storia, molto più ricco e più armonioso di quanto non appaia attraverso frettolose interpretazioni o agostinismi di moda.


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