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Ciascuno di noi è un messaggio che Dio manda al mondo (P. G. Vannucci OSM)

Una passo del Vangelo per te

UN PASSO DEL VANGELO PER TE

Il vero nome di Gesù

Il nome di Gesù: il più conosciuto al mondo.
(di Gianni Montefameglio, biblista)

Ma chi era Gesù?
Su di lui si pensa di sapere molto, ma qual'era la sua vera identità? Era un visionario? un personaggio mitico mai esistito? solo un uomo? un profeta? un rivoluzionario? Dio stesso fattosi uomo? una potente creatura spirituale con una esistenza pre-umana?

La Bibbia ci dice chi fu veramente “Gesù”.
C’è molto da scoprire, ma occorre mettere da parte le nozioni religiose date per certe e indagare senza pregiudizi le Sacre Scritture. Si faranno allora scoperte sorprendenti. Si scoprirà, tanto per cominciare, che “Gesù” non è il suo vero nome.

Il nome Gesù è la traslitterazione italianizzata del nome greco 'Ihsoàj [Iesùs].
Il cosiddetto Nuovo Testamento (ovvero le Sacre Scritture Greche) fu scritto in greco. Ma “Gesù” non era greco: era un ebreo. Il nome Iesùs è quindi la traduzione greca del suo vero nome ebraico. Sappiamo il suo nome ebraico? Sì. Abbiamo, per così dire, un eccezionale dizionario biblico ebraico-greco.
Si tratta della versione greca delle Sacre Scritture Ebraiche chiamata Settanta (LXX). Questa traduzione delle Scritture Ebraiche fu iniziata in Egitto nel terzo secolo prima della nostra era da una settantina di dotti ebrei; fu terminata nel secondo secolo prima della nostra era, forse verso il 150 a. E. V.. Le citazioni che le Scritture Greche fanno delle Scritture Ebraiche sono tratte proprio da questa versione della Settanta. Gli apostoli e i discepoli del primo secolo usarono questa versione della Bibbia.

Il nome greco Iesùs [Ἰησοῦς] si trova nella Settanta?
Sì. Ad esempio, lo troviamo nel libro del profeta Giosuè, capitolo 1, verso 1. Il versetto dice: “Dopo la morte di Mosè, servo dell’Eterno, avvenne che l’Eterno parlò a Giosuè, figlio di Nun” (ND). “Giosuè” è la traduzione italiana del nome ebraico che la Settanta traduce in greco come'Ihsoàj [Iesùs, “Gesù”]. E quale era il nome originale ebraico che i traduttori della Settanta tradussero con 'Ihsoàj [Iesùs]? Il nome era ["v¬¢/hyÒ [Yehoshùa]. Abbiamo quindi Yehoshùa tradotto in greco Iesùs e in italiano Giosuè.

EBRAICO GRECO ITALIANO
["v¬¢/hyÒ 'Ihsoàj Giosuè
Yehoshùa Iesùs

Ma allora come si arrivò a Gesù?
L’errore fu quello di tradurre la traduzione. Si vennero così a creare delle incoerenze: lo stesso nome (Yehoshùa) è reso in italiano sia con Giosuè che con Gesù. Così, ad esempio, in Ebrei 4:8 nella TNM si legge: “Se Giosuè [nel testo originale greco:'Ihsoàj, Iesùs] li avesse condotti in un luogo di riposo”, mentre – poco dopo, nello stesso capitolo - in Ebrei 4:14 (TNM) si legge: “Gesù [nel testo originale greco: 'Ihsoàn, Iesùn, qui al caso accusativo], il figlio di Dio”. Parrebbe trattarsi di due persone con nomi diversi, ma in verità sono due persone diverse con lo stesso nome. E’ una vera e propria incoerenza: lo stesso identico nome viene tradotto “Giosuè” e, poco dopo, nello stesso capitolo: “Gesù”.

Yehoshùa (Iesùs, in greco) non era un nome particolare.
Questo nome non era affatto insolito al tempo dei fatti evangelici. Lo storico ebreo Giuseppe Flavio (1° secolo della nostra era), menziona una dozzina di personaggi (non biblici) con questo nome. Il nome ricorre anche nei libri apocrifi (chiamati deuterocanonici dalla Chiesa Cattolica) ovvero quegli scritti ebraici che non entrarono a far parte del canone delle ispirate Sacre Scritture. Nella Bibbia, il nome greco Iesùs compare, oltre che in Eb 4:8 già considerato, in Atti 7:45 riferito ancora a Giosuè, il condottiero del popolo di Israele dopo la morte di Mosè. Anche un collaboratore dell’apostolo Paolo si chiamava Iesùs (Col 4:11). C’è anche un Iesùs antenato di Cristo (Lc 3:27). E altri ancora. Iesùs, dunque, è la traduzione greca dell’ebraico Yehoshùa.

In ebraico il nome è perciò Yehoshùa.
Se parliamo in greco lo traduciamo Iesùs, ma se parliamo in italiano lo traduciamo Giosuè. C’è da dire però che l’uso di tradurre i nomi propri è una pratica che non viene più attuata ai nostri giorni. Ad esempio, decenni fa si diceva Nuova York, ma ora si usa il nome originale: New York. Così, diciamo William Shakespeare e non Guglielmo. Diciamo Victor Hugo e non Vittorio. Diciamo James Joyce e non Giacomo. D’altra parte, se una persona si chiama Francesca si volterebbe se sentisse chiamare Françoise? Allo stesso modo, una donna francese di nome Françoise non si volterebbe di certo se fosse chiamata Francesca. Meglio sarebbe chiamare ciascuno con il suo nome, quello in cui si riconosce. Comunque, in caso di traduzione, occorre tradurre dall'originale e non da una traduzione.

Il Cristo si chiamava allora Yehoshùa?
Non esattamente. Alla sua epoca (primo secolo della nostra èra), il nome era pronunciato Yeshùa. E’ proprio sotto questa forma che la letteratura ebraica del suo tempo parla di lui. In questa letteratura ebraica egli è chiamato a volte anche Yeshu, che era quasi sicuramente la pronuncia galilaica del suo nome (è infatti dalla pronuncia galilaica che Pietro viene riconosciuto al momento dell’arresto di Cristo, come notato in Mt 26:73). Il suo nome proprio, quello vero, era dunque Yeshùa: [þWvy«.
“E tu lo chiamerai Iesùn [testo originale greco: 'Ihsoàn, Iesùn, qui al caso accusativo], poiché egli salverà il suo popolo” (Mt 1:21, testo greco). Nei testi ebraici J1-14,16-18,22 di Matteo compare [w`y (Yeshùa).

Da notare è la motivazione che l’angelo di Dio dà perché gli sia messo proprio quel nome:
“E tu lo chiamerai Yeshùa poiché egli salverà il suo popolo” (Dia). Perché quel bambino non avrebbe potuto chiamarsi – ad esempio – Beniamino o Simone o con un altro nome e salvare ugualmente il suo popolo? Doveva essere chiamato proprio Yeshùa e così salvare il suo popolo. Questo fatto, incomprensibile nella versione greca o nelle traduzioni in altre lingue, assume il suo valore pieno nel gioco di parole tutto musicale del testo ebraico:
וקראת את־שמו ישוע כי הוא יושיע את־עמו
vekaràta etshmò yeshùa ki yoshìa etamò
lo chiamerai Yèshùa poiché egli salverà il suo popolo

Ecco allora che la seconda parte della frase (“poiché egli salverà il suo popolo”) diventa l’effettiva interpretazione del nome. Yeshùa significa infatti “Yah salverà”, essendo Yah l’abbreviazione del nome di Dio (che compare per la prima volta nella Bibbia in Es 15:2: “Yah []Hy:±—-] è mia forza”) e shùa, derivazione di yeshuàh (ישועה) che significa “salvezza”.

Va evidenziato qui il significato che i nomi avevano nella mentalità semitica e quindi nella Bibbia.
Non è lo stesso significato che noi attribuiamo ad un nome oggi. Per gli ebrei il nome costituiva la realtà della persona, il suo carattere, il suo destino. Cambiare nome ad una persona significava cambiare il suo programma di vita (così riguardo a Simone, il cui nome Yeshùa cambia in Pietro – Gv 1:42). Questo simbolismo legato al nome si trova continuamente nella Bibbia, e ne viene data la motivazione introducendola con un “poiché” o un “perché” o un “perciò” o espressioni simili. Ad esempio, quando Dio cambia nome ad Abramo, capostipite degli ebrei, attribuendogli il nuovo nome di Abramo, gli viene detto: “Perché di sicuro ti farò padre [in ebraico אב, ab, padre] di una folla di nazioni [in ebraico עם, am, popolo]” (Gn 17:5, TNM). Così in Genesi 30:6, quando Rachele dice che Dio le ha fatto giustizia concedendole un figlio, è detto: “Perciò ella lo chiamò Dan [che significa giudice]”. E così per Lia che, concependo un figlio, dice: “Questa volta ringrazierò il Signore”; e il testo spiega: “Per questo lo chiamò Giuda [Yehùda, che significa egli sia ringraziato]” (Gn 29:35).

Il nome del Cristo, il Messia, fu dunque Yeshùa.
Nel nostro linguaggio moderno potremmo dire: un nome che era tutto un programma. Esso significa, infatti: Yah [Dio] è salvezza.
Il “Gesù” che ci è stato trasmesso dalle religioni cosiddette “cristiane” ha ben poco a che vedere con l’ebreo Yeshùa. Occorre riscoprire tutta la sua vera identità, iniziando a chiamarlo col suo vero nome: Yeshùa.
Volendo questa serie di studi essere una seria indagine basata sulla parola di Dio (la Bibbia), da questo punto in avanti saranno usati i nomi originali che la parola ispirata di Dio usa per le persone, tradotti in italiano o trascritti con lettere latine quando è più appropriato. Nel caso di Yeshùa la traduzione italiana corretta sarebbe Giosuè, tuttavia questo genererebbe confusione (data l’ormai universale accettazione del nome inesatto “Gesù”); ripristinare il nome originale ebraico pare quindi la scelta corretta, tanto più che Yeshùa è proprio il nome con cui suoi contemporanei lo chiamavano.
Per una mente che ha l’orecchio abituato a nomi come Gesù, Pietro, Giovanni, Saulo,Matteo, Luca, Maria, eccetera, può sembrare surrealistico udire i nomi veri corrispondenti: Yeshùa, Kefa, Yochanàn, Shaùl, Matài, Lukàs, Miryàm. Eppure, a ben pensarci, non è invece surrealistico evocare personaggi storici le cui vere identità sono state falsate dalle figure religiose dipinte dalla religione?
In ogni caso, saranno qui usate le traduzioni italiane dei nomi propri di persone e luoghi, eccetto nei casi in cui i nomi italiani siano per qualche ragione sbagliati. In questi casi sarà ripristinato il nome originale dandone le motivazioni.

Il suo epìteto
Abbinato al nome di Yeshùa le traduzioni della Bibbia riportano un altro nome, o meglio un soprannome: “Cristo”: “Gesù chiamato Cristo” (Mt 1:16, C.E.I., PdS).
Cristo è l’italianizzazione del greco christòs (χριστός), un aggettivo derivato dal verbo grecochrìo (χρίω), che significa “ungere”. Sebbene “Cristo” venga scritto in maiuscolo nelle diverse lingue, nel greco è in effetti un semplice aggettivo e significa “unto”. Christòs (“unto”) è a sua volta la traduzione greca dell’ebraico mashìakh (משיח) – da cui l’italiano messia - che significa, appunto, “unto”. Tale aggettivo (“unto”) designava la persona che veniva letteralmente unta con olio allorché era consacrata. Ad esempio, riguardo alla consacrazione di ogni sacerdote è prescritto: “Prenderai l'olio dell'unzione, glielo spanderai sul capo e l'ungerai” (Es 29:7). Chi era stato consacrato (versandogli olio sul capo) era dunque un unto: “Il sacerdote, l’unto [mashìakh, משיח – messia]” (Lv 4:5, TNM). Yeshùa, che è “sacerdote in eterno” (Eb 7:21), è dunque il mashìakh, il messia, il christòs, il cristo, l’unto per eccellenza. L’espressione biblica Iesùs ho christòs ('Ihsoàj Ð cristÒj) significa dunque “Yeshùa l’unto” e potrebbe essere tradotta, nel nostro linguaggio, “Yeshùa il consacrato”. Per il semplice, invece, “Gesù Cristo” appare quasi come un nome e cognome!
Usando la parola “Cristo” si commette lo stesso errore che si commette usando “Gesù”: si fa la traduzione di una traduzione traslitterando. Quanti infatti sanno che christòs è la traduzione greca dell’ebraico mashìakh (משיח), “messia”? Quanti sanno che “Cristo” e “Messia” sono la stessa cosa? Se pochi lo sanno, ancor meno sanno che sia “Cristo” che “Messia” significano unto, ovvero consacrato.
Usando i nomi appropriati – quelli biblici – si inizia già a delineare la vera identità di quello straordinario uomo giudeo che fu Yeshùa. Yeshùa il consacrato.

I discepoli di Yeshùa sono cristiani?
I discepoli di Yeshùa, coloro che credono in lui, possono chiamarsi “cristiani”? Uno studio accurato mostrerà che non è un nome appropriato, tanto quanto non sarebbe corretto chiamarsi “gesuani” o “untuani”. Esaminiamo.
In tutta la Bibbia la parola “cristiano” compare solo tre volte. Non è quindi difficile esaminare questi tre passi e dedurre da essi il senso della parola.

1. “Ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani” (At 11:26). Per stessa dichiarazione della Scrittura, fu questa la prima volta che il nome venne dato ai discepoli di Yeshùa. L’avvenimento è collocabile a metà degli anni 40 del primo secolo della nostra era, ovvero più di dieci anni dopo la morte di Yeshùa. Ciò accadde ad Antiochia, in Siria, fuori da Israele, in una nazione pagana. Luca, lo scrittore di Atti, dice che “i discepoli furono chiamati cristiani”. Già qui possiamo notare due aspetti:
a) Luca li chiama “discepoli”;
b) Luca dice che non furono i discepoli a darsi quel nome di “cristiani”, ma che essi “furono chiamati” così.

Il nome che Luca usa per loro è quindi “discepoli”. Ma da chi “furono chiamati cristiani”? Evidentemente da gente di Antiochia che non apparteneva alla congregazione dei discepoli. In tal modo, quella gente affibbiava loro un certo nome. Dato che “cristo” significa – come si è visto – “unto”, era come definirli “untuani” o “messianisti”. Accade anche oggi che vengano affibbiati dei nomi denigratori, come ad esempio quando si definiscono “russelliti” gli Studenti Biblici che furono guidati da C. T. Russel; oppure quando si definiscono “geovisti” i Testimoni di Geova. O, ancora, quando si definiscono “papisti” i cattolici. Quel nome di “cristiani” fu quindi un appellativo non molto gentile per classificare i discepoli di Yeshùa.
Sbaglia quindi la Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture quando traduce il passo così: “Fu ad Antiochia che per la prima volta i discepoli furono per divina provvidenza chiamati cristiani”. I traduttori di questa versione commettono qui almeno tre errori. Il più grave è quello di aggiungere una frase che non compare assolutamente nel testo greco: “per divina provvidenza”. Ecco il testo greco, traslitterato e tradotto letteralmente:
crhmat…sai    te  prètwj   ™n ‘Antioce…v  toÝj maqht¦j   CristianoÚj
chrematìsai     te   pròtos    en  Antiochèia   tus   mathetàs    christianùs
stati chiamati     e per prima     in  Antiochia       i     discepoli        cristiani

“Per divina provvidenza” non compare affatto nel testo originale: è stato arbitrariamente aggiunto. E, come secondo errore, non è stato neppure posto tra parentesi quadre per indicare che è stato aggiunto dai traduttori. Il terzo errore è la conseguenza di questa manomissione: falsare il vero significato del testo.
Se poi i traduttori hanno pensato di tradurre quel crhmat… sai (chrematìsai) col significato di “essere chiamati per divina provvidenza”, commettono un altro grave errore. Il verbo greco, infatti, è χρηματίζω (chrematìzo) e significa: “trattare, dare un nome”. Si noti: trattare attraverso un nome.
Pare ovvio che in quel territorio pagano i detrattori dei discepoli di Yeshùa trovarono un nome (“cristiani”) per identificarli nel loro parlare comune, per trattarli (come significa il verbo greco) in un certo modo. Il loro intento dovette essere simile a quello che mosse coloro che diedero il nome di “negri” alle persone di razza nera.

Comunque, quel termine di “cristiani” non fu mai usato dai discepoli stessi. Lo stesso Luca, subito dopo aver riferito che tale nome fu dato loro ad Antiochia, riprende a chiamare i credenti con il solito nome: “discepoli” (At 11:29). Se fu “per divina provvidenza”, come mai Luca non si adeguò? E come mai non si adeguò mai nessuno dei credenti?
Illuminante anche il passo di At 12:1 che parla di “quelli della congregazione” (TNM): così Luca definisce i credenti pochissimi versetti dopo aver riferito che gli antiochieni diedero ai discepoli l’appellativo di “cristiani”. Luca davvero non fa suo quel nome.
A ulteriore conferma che l’appellativo di “cristiano” era un soprannome dispregiativo dato dal popolino, abbiamo le parole scritte nel 116 o 117 della nostra era da uno storico che, descrivendo i discepoli di Yeshùa, scrive: “Coloro che il volgo chiamava cristiani” (Tacito, Annales 15,44). Le cattive intenzioni del volgo, ovviamente, hanno ben poco o nulla a che fare con la “divina provvidenza”.

2. La seconda volta che il nome “cristiano” appare nella Scrittura è in At 26:28. Sono passati circa quattordici anni da quell'avvenimento di Antiochia: siamo nel 58 circa della nostra era,venticinque anni dopo la morte di Yeshùa. L’apostolo Paolo si trova a Cesarea, prigioniero davanti al re Erode Agrippa, e ha appena terminato di dare la sua testimonianza di fede. “Ma Agrippa disse a Paolo: ‘In breve tempo mi persuaderesti a divenire cristiano’” (TNM). Notiamo subito che ad usare questo termine di “cristiano” è, ancora una volta, qualcuno che non è un discepolo di Yeshùa. Evidentemente, quel modo di chiamare i discepoli, iniziato ad Antiochia, era diventato un modo comune di riferirsi a loro da parte della gente (al di fuori della congregazione). Ora lo usa perfino il re Agrippa. E’ però molto interessante notare come si comporta Paolo. “Allora Paolo disse: ‘Desidererei dinanzi a Dio che in breve tempo o in lungo tempo non solo tu ma anche tutti quelli che oggi mi odono divenissero tali quale sono io’” (TNM). Qui Paolo dà prova di grande abilità e di tatto. Non si ferma a contestare l’ironia di Agrippa, ma – desideroso di continuare la sua testimonianza – schiva elegantemente quell'appellativo di “cristiano” e nella sua risposta lo sostituisce con un “quale sono io”.

3. La terza e ultima volta in cui il termine appare nella Bibbia si trova in 1Pt 4:16. Questa volta è l’apostolo Pietro ad usarlo. Sarà interessante esaminare come egli lo usa. Intanto osserviamo che ci troviamo all'incirca nel 62-64 della nostra era, quasi trent'anni dopo la morte di Yeshùa. Il termine doveva essere ormai molto comune tra le persone estranee alla comunità dei discepoli.

Ed ecco ciò che scrive Pietro.
“Ma se [soffre] come cristiano, non provi vergogna” (TNM). Pietro usa dunque il termine. Esaminiamo il contesto e scopriamone il perché.
Il capitolo 4 della sua prima lettera inizia con l’esortazione fatta ai credenti ad ‘armarsi della stessa disposizione mentale’ di Yeshùa: accettare la sofferenza, “siccome Cristo soffrì nella carne” (v. 1, TNM). Pietro rammenta poi loro che i peccati e le ingiustizie da loro commessi prima di diventare fedeli appartengono al tempo passato (v. 3); ora sono persone diverse, per questo i non credenti “parlano ingiuriosamente” di loro (v. 4, TNM). Passa poi a dare consigli sulla buona condotta (vv. 7-11). Dal v. 12 li esorta a non rattristarsi per quello che subiscono, ma – al contrario – a ‘rallegrarsi , visto che sono’ “partecipi delle sofferenze del Cristo” (v. 13,TNM). Poi arriva al punto: “Se siete biasimati per il nome di Cristo, felici voi” (v. 14, TNM). Quindi distingue: “Comunque, nessuno di voi soffra come assassino o ladro o malfattore o come uno che si intromette nelle cose altrui. Ma se [soffre] come cristiano, non provi vergogna” (vv. 15,16, TNM).

In pratica Pietro dice: Yeshùa ha sofferto, anche i suoi discepoli soffrono; ma attenzione: se uno soffre perché è omicida o ladro, si deve solo vergognare; ma se soffre “come cristiano”, per queste vituperazioni non ha motivo di vergognarsi, perché essere biasimati “per il nome di Cristo” è motivo di gioia. Anche se i non credenti “parlano ingiuriosamente” e i discepoli sono “biasimati per il nome di Cristo”, essere tacciati col nome di “cristiani” (nell'intento di attribuire loro chissà quale colpa) non è motivo di vergogna; lo sarebbe essere tacciati, a ragione, di omicidio o furto.

Riguardo al nome affibbiato, un po’ la stessa cosa accadde a circa metà dello scorso millennio. Coloro che contestarono l’autorità papale e protestarono contro diversi insegnamenti cattolici non ritenuti biblici, furono definiti “protestanti”. Il colmo è che loro stessi accettarono quel termine e lo usano ancora oggi per identificarsi.
In tutte le Scritture Greche i credenti in Yeshùa sono sempre chiamati “discepoli”, anche dopo che fu affibbiato loro l’appellativo di “cristiani”. Essi non usarono mai tra loro il termine di “cristiani”, ma lo subirono. Senza mai accettarlo.

Autore: Gianni Montefameglio, biblista
Fonte dell'articolo: biblistica.myblog.it

2 commenti:

  1. lode a Gesù quando non sono compresa , nel silenzio più profondo Gesù non mi abbandona, chiedo a LUI una continua conversione , imparare ad amare è una Grazia , un guadagno è pace , benedetto sia Gesù in eterno . Grazie fratello in Cristo

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